Il prossimo 19 febbraio (Yekatit 12, nel calendario etiope) ricorrerà l’86° anniversario della strage di Addis Abeba, uno dei più efferati crimini commessi dal Regno d’Italia nelle sue colonie. La brutale rappresaglia del 1937 per il fallito attentato contro il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani è riemersa dopo un lungo oblio anche grazie al lavoro dello storico inglese Ian Campbell.
Di seguito vi riporto altri crimini disumani e relativi numeri:
- l’eccidio dell’Etiopia del 19-21 febbraio 1937 che portò, in diverse ondate, a oltre 20.000 morti, ricordati dal memoriale Yekatit 12 eretto in una piazza centrale della capitale etiope;
- il massacro del monastero di Debre Libanos del 21-29 maggio 1937 con l’uccisione di circa 2.030 persone, tra cui 30 invalidi, 1.600 monaci, 124 diaconi, 276 insegnanti;
- la mattanza di Caia Zeret, tra il 9 e l’11 aprile 1939, con l’uso di gas tossici nella grotta Amazegna Washa da parte del plotone chimico della Divisione Granatieri di Savoia e le successive fucilazioni sistematiche dei prigionieri, per complessivi 2.000 morti;
Nella settimana tra il 12 e il 19 febbraio, varie realtà si riuniranno a Roma per una serie di riflessioni e iniziative sui crimini e le eredità del colonialismo italiano.
Il 19 febbraio, Yekatit 12, è ormai un appuntamento fisso, che ogni anno ricorda le vittime dei crimini del colonialismo con azioni di guerriglia odonomastica, performance, reading sonorizzati, trekking urbani, installazioni e incontri.
Tanti studi approfonditi e ben documentati hanno stimato in almeno 700.000 le persone vittime del colonialismo italiano in Eritrea, Libia, Etiopia, Somalia e Balcani, periodo storico iniziato con i governi liberali nella seconda metà del 1800 e culminato con il fascismo;
E’ stato ampiamente provato il largo uso di aggressivi chimici contro le popolazioni locali, utilizzati sporadicamente in Libia, e massicciamente in Etiopia dove, nel corso degli anni 1935-39, vennero impiegate non meno di 500 tonnellate di gas chimici.
E’ stato ampiamente documentato l’uso dei campi di prigionia, in Eritrea, nell’isola di Nocra, in Cirenaica, ad Agedabia, Marsa Brega, Sidi Ahmed el-Magrun, el Abiar, el Agheila e Soluch, in Somalia, a Danane.
Con gli stessi criteri di violenza e disumanizzazione del “nemico” è stata condotta, durante la seconda guerra mondiale, l’occupazione dei Balcani: pochi ma lunghi anni di sofferenza per le popolazioni locali, con quasi 30mila morti, rappresaglie feroci, decine di migliaia di persone deportate nei campi di concentramento, centinaia di villaggi distrutti. Nel luglio del 1943, ad esempio, vicino a Mallakasha, furono massacrati centinaia di civili
Rientra in questo orribile contesto anche il saccheggio di un enorme patrimonio artistico-religioso con il furto sacrilego sistematico di chiese e monasteri (in particolare a Debre Libanos) e di tesori inestimabili.
Un saccheggio ancora in sospeso perché, pur avendone assunto ufficialmente l’impegno con il trattato di pace del 1947, l’Italia non ha restituito nulla di questi tesori all’Etiopia, a parte la Stele di Axum, riconsegnata al governo di Addis Abeba solo nel 2005, non senza irresponsabili polemiche.
Prima ancora di quelle antisemite del novembre 1938, proprio nelle colonie africane l’Italia ha sperimentato feroci leggi razziali introducendo nel 1936-37 un rigido regime di apartheid culminato ad esempio in provvedimenti quali:
- le “Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale tra cittadini e sudditi”, del 19 aprile 1937
- le “Sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa italiana” del 29 giugno 1939 con cui si vieta il matrimonio con individui di razza camitica, semitica e di altre razze non ariane
- le “Norme relative ai meticci” del 13 maggio 1940, che aboliscono la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana per gli abitanti indigeni, per le italiane sposate a sudditi, ai figli di africani, ai bambini di sangue misto, agli indigeni che prestano servizio militare o civile presso l’amministrazione dell’Africa Orientale Italiana.
A fronte di questi incontestabili fatti storici, molti comuni Italiani celebrano ancora il colonialismo italiano con i nomi-simbolo dati a piazze, vie, viali, larghi, ponti, palazzi o con lapidi, steli, busti, addirittura monumenti: nomi-simbolo la cui “presenza muta” perpetua di fatto quel senso di superiorità imperiale che ne sono la radice e di cui di cui restano intrisi.
Appare evidente, in altri termini, come non sia stata mai avviata una efficace, radicale riflessione collettiva sui crimini del colonialismo italiano, sulle sue ragioni e le sue conseguenze. Eppure è più che evidente come, per essere credibili, non si possano continuare a ricordare solo le stragi subite e non anche e forse ancora di più quelle commesse.
Come spiegano gli organizzatori e le organizzatrici della neonata Rete Yekatit 12–19 febbraio, gli eventi di questi giorni sono stati organizzati per «sostenere e promuovere l’applicazione delle mozioni approvate dai Consigli Comunali per la risignificazione della odonomastica coloniale presente e l’istituzione del 19 febbraio come ‘Giornata di riflessione sui crimini e sulle eredità del colonialismo italiano».
A livello nazionale c’è già una proposta di legge giacente in Parlamento dal 23 ottobre del 2006, ispirata da Angelo Del Boca, ma mai presa in considerazione: è ormai tempo di dare memoria alla memoria, raccontando la storia anche dalla parte delle vittime, perché le atrocità coloniali degli italiani non continuino ad essere colpevolmente ignorate o maldestramente “lavate via” dalla coscienza nazionale.