Giovedì 20 ottobre in via Polese si è tenuta l’inaugurazione della sede del progetto “Territori per il reinserimento: Servizi per la giustizia riparativa e a favore delle vittime di reato” che ha l’obiettivo di sviluppare servizi pubblici per l’assistenza generale delle vittime di reato e per la Giustizia Riparativa e Mediazione penale, anche attraverso l’attivazione di uno sportello informativo aperto alla cittadinanza. Il progetto è stato finanziato da Cassa delle Ammende ed è gestito dal CIMFM (Centro Italiano di Mediazione e di Formazione alla Mediazione) con la collaborazione di Comune, ASP e Regione ER.
Credo che tale servizio possa realmente arricchire la città di Bologna e debba essere adeguatamente valorizzato per comprendere a pieno i benefici che può dare al territorio.
La giustizia riparativa è sempre stato un metodo di pacificazione dei conflitti che mi ha profondamente affascinato per la sua capacità di sviluppare percorsi pazienti che fuggono dalla fretta e dalla rigidità della condanna sociale e legale, esplorando con sincerità l’umanità del reato, dell’errore, del pentimento, del dolore e della rabbia. Il percorso riparativo è un nido di delicatezza lontano dai palchi mediatici, che vive d’intimità e professionalità. In tal senso quando si parla di mediazione per prima cosa bisogna rimuovere l’idea superficiale che la associa ad un percorso buonista che non distribuisce responsabilità e non fa giustizia, al contrario è necessario riconoscere la complessità di questi percorsi che hanno un ambizione alta e faticosa da raggiungere: quella di una giustizia reale che supera la forma di sentenze inaccessibili e che tocca in modo travolgente la coscienza dei protagonisti di un reato.
La giustizia riparativa scardina la logica dell’io vendicativo che imprigiona la giustizia tradizionalmente intesa e apre ad interrogativi verso la comunità, al noi, la cui sensibilità culturale e morale è sollecitata dalla mancanza di riferimenti di condanne retributive che rassicurano il nostro sistema.
È proprio nel noi di percorsi collettivi che la giustizia riparativa ha conosciuto le sue massime espressioni a seguito di periodi bui di lotte intestine ad interi paesi.
L’esempio più evidente è quello del percorso di pacificazione del Sud Africa post – Apartheid dove fu istituita la “Commissione per la verità e la riconciliazione” con lo scopo di raccogliere la testimonianza delle vittime e dei perpetratori dei crimini commessi da entrambe le parti durante il regime, richiedendo e concedendo (quando possibile) il perdono per le azioni svolte, tentando di superare gli anni bui del passato non solo sul piano legislativo ma anche sul piano umano pacificando realmente vittime e carnefici, seguendo la spinta ideale della filosofia Ubuntu fondata sul concetto “io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”.
Nel nostro paese è significativo il percorso fatto per ricucire le ferite degli anni di piombo, esperienza riconciliativa ben raccontata nel “Libro dell’incontro” curato da Guido Bretagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, che hanno saputo far dialogare su carta i pensieri di chi ha vissuto il dolore dello stragismo e la passione della lotta armata dando voce ad un potente coro che armonizza le contraddizioni di quegli anni.
Alla luce delle ricche esperienze che ho citato, ritengo che sia più che mai importante coltivare anche nel nostro presente colmo di conflittualità la cultura della mediazione in percorsi di giustizia e nella quotidianità dei nostri rapporti sociali.
Progetti simili a quello che ha preso avvio giovedì scorso sono stati promossi anche in passato nella nostra città e questa nuova iniziativa spero possa trovare continuità e sempre più costanza. Credo in una Bologna che non sia più solo il laboratorio sperimentale ma il contesto naturale per dare struttura solida ad esperienze che possano realmente ridisegnare il sistema, del resto è proprio questo a cui mira una risposta riconciliativa al reato: il dialogo con le proprie vittime, per quanto ricostruttivo, rivela le conseguenze dei propri gesti sugli altri e questo può persino intensificare l’afflizione, nel tempo e nello spazio di sé, ben più dell’intervallo vuoto della detenzione e dell’esclusione, come tale esposto alla lusinga di una chiusura autoassolutoria dei conti. Il dialogo chiede necessariamente un’uscita da sé, su questo deve investire un’amministrazione e su questo ho richiesto un’udienza conoscitiva per approfondire le modalità con le quali può essere praticato a partire dall’esperienza appena avviata.