Il Sudan è in preda dello scontro tra esercito e paramilitari. Circa 50  italiani sono ancora bloccati e 150 già evacuati.  Il ministero della Difesa italiano, come del resto stanno facendo altri Paesi occidentali, sta organizzando l’evacuazione dei connazionali con velivoli militari che sono già stati dislocati a Gibuti, il piccolo stato incastonato fra Eritrea, Etiopia e Somalia sul golfo di Aden. 

In mattinata l’esercito sudanese aveva previsto già «per le prossime ore» l’evacuazione da Khartoum di diplomatici e cittadini dei paesi occidentali.

In mattinata sono ripresi gli scontri: i combattimenti vengono segnalati in 24 punti di Khartoum, di cui otto in un settore della capitale sudanese dove si trova anche l’ambasciata d’Italia, peraltro sempre operativa sotto la guida dell’ambasciatore Michele Tommasi. 

I combattimenti a Khartum sono tra l’esercito del presidente, il generale Abdel Fattah al Burhan, e il suo vice, pari grado e golpista Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, che guida la Rapid Support Forces, cioè gli ex janjaweed.  Hemetti controlla le forze armate più autonome e brutali del paese, le Forze di supporto rapide, il restyling dei janjaweed, gli uomini armati a cavallo che hanno razziato il Darfur e il Sudan per anni, uccidendo uomini e bambini, violentando le donne, tutto quel che era d’ostacolo al rafforzamento del regime finiva cadavere. Hemeti, che ha poco più di quarant’anni, è stato uno degli interlocutori più importanti per l’Italia e per l’Europa.

Intervistato nell’agosto 2022 per la pagina Facebook New Sudan, il generale golpista ammette: “Siamo supportati soprattutto dagli italiani. Ringraziamo quindi gli italiani, soprattutto dal punto di vista tecnico. Potrebbero continuare per due anni con noi”. E po aggiungei: “La loro formazione ci ha giovato molto perché è specializzata nella lotta al terrorismo e all’immigrazione clandestina. Grazie all’Unione europea e agli europei in generale. Siamo impegnati per loro e per conto del mondo. Non bisogna dimenticare che ora stiamo svolgendo un ruolo umanitario nel deserto. Abbiamo sovvenzioni per il carburante e dobbiamo controllare un territorio vastissimo”.

Noi italiani abbiamo contribuito a creare un mostro. Abbiamo addestrato i janjaweed, criminali che ora hanno tentato un colpo di Stato e stanno massacrando la popolazione civile. Con scarsa lungimiranza, l’Italia aveva deciso di affidare ai tagliagole il compito di controllare i confini del nord del Sudan con Egitto, Libia e Ciad per non fare passare i migranti che ogni giorno dall’Africa subsahariana tentano di arrivare al Mediterraneo. 

Chiodo fisso quello dell’immigrazione irregolare per tutti i governi succedutesi alla guida del bel paese nelle ultime decadi, anche a costo di stringere relazioni e alleanze con i regimi più indigesti, impresentabili, violenti e corrotti del continente africano. Con il Sudan è stato firmato il 3 agosto 2016 un memorandum sui temi della gestione dei fenomeni migratori e delle frontiere (a sottoscriverlo a Roma l’allora direttore generale della Pubblica sicurezza, prefetto Franco Gabrielli e il direttore generale delle Forze di polizia sudanesi, generale Hashim Osman el-Hussein). L’accordo, mai revocato dall’Italia nonostante i successivi sanguinosi colpi di stato in Sudan, prevede la collaborazione tra le due forze di polizia in ampi settori: contrasto al crimine organizzato internazionale, immigrazione irregolare, scambi di esperienze e di esperti tra le forze di polizia; organizzazione di corsi e attività addestrative; scambio di informazioni sui passaporti e sugli altri documenti di viaggio, sui visti e sui timbri di ingresso e uscita; il memorandum prevede inoltre la possibilità che l’Italia offra alle autorità sudanesi “supporto e assistenza tecnica in termini di formazione e di fornitura di mezzi e di equipaggiamento”. Le denunce di violenze, soprusi, omicidi compresi, non hanno smosso più di tanto il governo Italiano, mostrando tutti i limiti e i fallimenti dell’“aiutiamoli a casa loro” o “respingiamoli a casa”.  

Infine, qualcuno può spiegare al nostro primo ministro Meloni di non andare in Africa, perché ogni volta che visita un paese per fermare i migranti, si scatena una guerra che produce più sfollati e profughi di quanto facessero prima.

Prima Tunisia e ora il Sudan, Auguri.

Qui riportiamo l’intervista a Dagalo Hemetti