In questi giorni l’attenzione è concentrata su quanto sta accadendo al confine tra la Polonia e la Bielorussia, dove sono bloccati migliaia di profughi che cercano disperatamente aiuto in Europa. Anzi, di fatto è quasi l’unica notizia sull’emigrazione trattata dai media. Per certi versi questa attenzione particolare è comprensibile, per almeno due motivi: il ricatto imputato al premier bielorusso Lukashenko, a cui si contesta di usare quei disperati come arma di pressione sull’Europa; e poi le terribili condizioni in cui sono costrette quelle migliaia di persone, inclusi numerosi bambini, nella terra di nessuno tra le due frontiere, al freddo, senza riparo, senza cibo, addirittura senza acqua: non a caso, da settembre a oggi, ci sono stati decine di morti, tutti di ipotermia e sfinimento.

A ben vedere, tuttavia, non è una situazione inedita. Tutt’altro. Lukashenko è solo l’ultimo ad usare i profughi come “arma”. Lo ha già fatto a suo tempo Gheddafi, pronto ad aprire o chiudere i flussi di migranti dalla Libia a seconda delle circostanze e delle richieste che poneva. Lo ha fatto e continua a minacciare di farlo di nuovo il presidente turco Erdogan in quella sorta di “grande gioco” politico ed economico, sulla pelle dei migranti, che sta conducendo da anni con l’Europa.

Dall’inizio dell’anno sono morti oltre tremila profughi/migranti in fuga verso l’Europa. Secondo il dossier del Comitato Nuovi Desaparecidos, 3.116 sino al 21 novembre: 2.959 inghiottiti dal Mediterraneo o dall’Atlantico, 157 lungo le “vie di terra”, nei paesi di transito in Africa, nel Medio Oriente ma anche nella stessa Europa. Una media di circa 300 al mese. Quasi 10 al giorno. Con questo ritmo terribile, a fine dicembre si rischia di arrivare intorno alle 3.500 vittime.

Ecco, l’altro elemento esploso quest’anno, oltre al numero di morti e dispersi, sono i respingimenti di massa effettuati dalle forze di sicurezza nazionali di diversi Stati Ue e dall’apparato dell’agenzia europea Frontex oppure, più spesso, dati in appalto alla polizia di vari paesi africani e mediorientali sulla base di costosi accordi stipulati, a suon di miliardi di euro, dall’Unione Europea o da singoli governi Ue, a partire dall’inizio del secolo: il Processo di Rabat (2006), ad esempio, o ancora, via via nel tempo, il Processo di Khartoum (2014), i trattati di Malta (2015), il patto con la Turchia (firmato nel 2016 sulla base di 6 miliardi e rinnovato di recente), il memorandum Italia-Libia (2017) e tutti i successivi adattamenti e aggiustamenti. Accordi che hanno innalzato un’invisibile barriera nel Mediterraneo ed esternalizzato di fatto i confini della Fortezza Europa, spostandosi sempre più a sud e affidando la custodia agli “Stati gendarme” che hanno aderito.

Ma il punto, forse, non sono in sé i Lukashenko, i Gheddafi e gli Erdogan. Il punto vero è che paradossalmente a consegnare nelle mani di personaggi di questo genere “l’arma dei profughi” è stata ed è tuttora l’Europa stessa, la quale finora ha affrontato la questione dell’emigrazione come un problema politico emergenziale e soprattutto di sicurezza, sia interna che ai confini. Infatti, si continua a parlare di “invasione”, come se ci fosse alle porte un esercito aggressore e non di donne e uomini in cerca di aiuto e di una vita migliore. L’Europa ha i mezzi per accogliere questi disperati e gestirne i flussi. Basterebbe cominciare a rendersi finalmente conto che “queste persone non sono una sorta di pedine spostate su una scacchiera da Lukashenko o altri leader autoritari, ma sono invece individui che hanno molte, infinite ragioni per volersi spostare”.

Eccolo il focus del problema. Sono anni che la politica europea (e in particolare italiana) sull’emigrazione non pone al centro, come sarebbe lecito attendersi, i migranti – le loro storie, i loro problemi, i loro sogni e i motivi che li hanno costretti a lasciare la propria terra – ma si focalizza su come fermarli e non farli arrivare, questi migranti. Ad ogni costo.

Uno dei più grandi problemi del sistema di asilo è che molti dei richiedenti non ne hanno diritto. Sono i cosiddetti “migranti economici” : persone che fuggono dalla mancanza di prospettive, non dalla guerra. Il sistema d’asilo non è pensato per loro. Dei 40 mila nigeriani che hanno presentato richiesta di asilo nel 2017, il 91 per cento è stato rifiutato. Praticamente non hanno possibilità. Ma i nigeriani continuano a fare richiesta di asilo, per il semplice motivo che non hanno altra scelta. Non esistono visti di lavoro che possono richiedere. Così rischiano la vita in una traversata pericolosa e tentano la fortuna, finendo per sovraccaricare il sistema. E i nigeriani non sono certo gli unici: da anni ormai più della metà delle richieste di asilo in Europa viene respinta.

Ci vuole una politica dell immigrazione migliore (vale a dire: più umana, più onesta, più intelligente, più utile dal punto di vista economico). La chiave è consentire una maggiore migrazione temporanea per motivi di lavoro. Con ingressi legali, per non arricchire solo dittatori e mafie, ma invece i territori di arrivo (assicurazioni sanitarie, tasse pagate ecc).

Siid Negash