Oggi siamo qui a ricordare la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. A mio parere c’è un problema di base nella trattazione di questo tema. La donna è spesso dipinta nella narrazione mediatica come il soggetto che deve inseguire l’uomo per colmare un gap di riconoscimento di diritti e rispetto sociale. Ciò è certamente vero, ma a mio parere estremamente limitante, creando una battaglia chiusa che spesso vede poco coinvolti gli uomini idealmente e praticamente. Un’altra visione del problema è possibile e auspicabile.
La prima ad avere l’intuizione che la lotta per la parità di genere passasse dalla lotta per il riconoscimento dei diritti degli uomini è stata l’ex giudice della corte suprema degli Stati Uniti Ruth Ginsburg. Nel corso della sua carriera da avvocatessa ebbe l’idea rivoluzionaria di rappresentare ricorrenti uomini nella cause per discriminazione sulla base del sesso. La strategia di Ruth Ginsburg aveva di mira la liberazione degli uomini dalle classificazioni basate sul sesso, aprendo loro le porte della sfera domestica e quindi porre specularmente le condizioni per la reale emancipazione femminile, che dipende in buona misura dalla condivisione dei compiti di “cura”. Ruth Ginsburg ha invertito il paradigma che fosse la donna a dover inseguire l’uomo, affermando che l’uomo stesso vive in una permanente e inconsapevole carenza di diritti dettata da un sistema culturale miope.
In quest’aula oggi vorrei gridare che i miei diritti sono ancora troppo poco tutelati, perché so che se diventerò padre avrò diritto a 10 giorni di congedo, troppo pochi, perché so che la macchina in un lungo viaggio con la mia famiglia è buona creanza che la guidi io, perché so che se voglio fare carriera in qualsiasi settore non avrò il tempo di cucinare neanche un piatto di pasta e che sarò costretto ad appaltare il mio affetto a qualche baby sitter, perché so che l’essere sensibili per troppi uomini è un sentimento troppo dolce e sincero per essere provato, che le lacrime sono rughe dell’orgoglio da nascondere il più possibile.
Io voglio avere un diritto alla cura, perché voglio essere in grado e avere l’opportunità di curare, di essere sensibile, fragile, di avere la forza di essere gentile. Tutte cose per le quali naturalmente non c’è spazio nella vita frenetica di un uomo, nella quotidianità di un mondo maschilista.
Eh sì, perché il mondo che abbiamo è figlio del peggior maschilismo: un mondo che non si sa fermare, che non ha cura degli ultimi, che è individualista, che è fondato sul desiderio di annientare l’avversario, che non ha spazio per il dialogo, che non conosce il rispetto.
La nostra politica è maschilista: io non tu. Le nostre azioni spesso sono proiezioni del nostro ego sugli altri, l’esercizio delle nostre opinioni è scorbutico e distruttivo. E ciò accade purtroppo troppo spesso da parte di tutti i versanti politici.
Quello che è accaduto in questi giorni con la delegata del sindaco all’immaginazione civica testimonia ciò. Una leggerezza è stata caricata di peso. 29 minuti di pubblicazione di una storia instagram sono bastati ad azionare una macchina violenta di insulti sui social. Dimenticandosi che la storia proveniva da una pagina che si occupa della lotta per i diritti delle donne, che il video con il fermo immagine sull’acronimo ACAB dava le indicazioni per la manifestazione nazionale di Roma per la giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne. L’acronimo ACAB è certamente da condannare e respingere, come la delegata stessa ha fatto, ma il resto che senso ha? i fiumi di insulti che sono stati liberati dai post di qualche esponente politico che senso hanno?
Oggi più che mai rivendico la necessità di una politica che si disintossichi da questa superficialità di contenuti, che sappia guardare il lato profondo delle cose come Ruth Ginsburg.
Oggi chiedo le dimissioni di questo stile di fare politica perlomeno in questo Consiglio, potrebbe essere il primo passo concreto che ognuno e ognuna di noi potrebbe fare per iniziare a scomporre un sistema umanamente e politicamente insostenibile.
Giacomo Tarsitano