In questi giorni ho letto parecchi articoli sui giornali in merito alle aggressioni che si sono verificate in piazza San Francesco e in zona Pratello da parte di alcuni ragazzi verso loro coetanei, nonché di 2 arresti a seguito di un furto sempre nella medesima zona. Da tempo il tema di Piazza San Francesco e delle dinamiche complesse che si sono generate è all’attenzione della stampa, spesso però con un’analisi superficiale che pare distante dalla comprensione del fenomeno stesso con terminologie e descrizioni roboanti che dividono la città tra baby gang e vigilantes impegnati in una guerra al fronte le cui sorti sono ancora in bilico.

Tutta questa narrativa a mio modo di vedere è da respingere in modo assoluto perché distrae dalla serietà del tema.

Svolgendo un’analisi sincera, ciò che sta accadendo in Piazza San Francesco in questo periodo è grave, per due principali aspetti.

Il primo è quello più evidente, la sintomatologia di problemi più profondi e complessi, la violenza di alcuni giovani che si manifesta gratuitamente, che genera paura in chi vuole aggregarsi pacificamente. Tutto ciò è da condannare e dimostro la mia più totale vicinanza alle famiglie di chi in questi giorni ha subito aggressioni. Ciò che rilevo problematico è che l’analisi pubblica nella maggior parte dei casi si ferma qui, ad una fotografia che non lascia spazio ai “cattivi” della storia. Qui sta il secondo aspetto di criticità, quello più grande, cioè il fatto che di ciò che sta accadendo in Piazza San Francesco non abbiamo capito nulla e non capendolo non troveremo mai soluzioni collettive.

Per questo mi ha fatto piacere leggere tra i tanti articoli che raccontano del “Far west” in scena a Bologna, uno che ha rinunciato ad assumere il ruolo che è proprio dei cinema multisala e che si è addentrato nella realtà della questione interpellando la criminologa Stefania Crocitti, una delle curatrici della ricerca “Bande giovanili di strada in Emilia Romagna tra marginalità, devianza e insicurezza urbana” realizzata da Unibo per conto della Regione. Qui emerge un primo dato, cioè che era da 10 anni che non si svolgeva un’indagine in materia. Se questi sono i ritmi di analisi di fenomeni così dinamici come quelli dell’aggregazione giovanile è evidente che c’è un conseguente grosso problema nell’individuare soluzioni.

Andando nel merito di ciò che emerge dalla ricerca viene descritta la composizione dei gruppi che creano disagi in città, si tratta di gruppi di adolescenti tra i 14 e i 17 anni, spesso di seconde e terze generazioni ancora in attesa di cittadinanza e in alcuni casi ci sono gruppi misti che partono da percorsi analoghi di marginalità sociale ed urbana.

Qui è doverosa una parentesi politica, perché è da stolti pensare che non ci sia una complicità silente dello Stato in ciò che accade nelle nostre piazze, queste sono la fotografia della Legge 91 del 1992 in materia di Cittadinanza e ancora prima di un minuscolo paragrafo sui termini dei procedimenti amministrativi nella L. 241 del 1990 che recita: “I termini ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l’immigrazione”, la traduzione letterale di questo paragrafo è che in quanto migrante o nuovo cittadino i tuoi documenti sono ostaggio dello Stato e il tuo diritto a rivendicarli è spuntato di leve giuridiche. Tralasciando la complessità del fenomeno migratorio in senso stretto, questo contesto normativo, non mi stancherò mai di ripeterlo, intrappola in condizioni di lunga confusione identitaria e di frustrazione burocratica intere generazioni di ragazzi, l’esito di ciò può essere anche la violenza. Chi sa se questo governo che ha tanto a cuore la sicurezza non trovi il coraggio, che neanche la sinistra ha trovato, di rimuovere le marce normative che alimentano il caos sociale.

In ultimo evidenzio che uno dei risultati derivanti dalla ricerca prima citata è quello della natura fluida delle aggregazioni giovanili, per ciò la maggior parte di queste non può essere definita come banda giovanile, usare il termine baby gang è sbagliato, questo risponde solo ad esigenze mediatiche costruendo un allarme che non trova riscontro nei risultati delle indagini scientifiche.

Partendo quindi dalla natura del fenomeno si deve prima di tutto definire cosa non fare: la risposta di tipo punitivo è da evitare perché ha il solo effetto di rinforzare il senso di appartenenza, rendere il gruppo fluido sempre più coeso e recidere i legami con gli adulti, i servizi e la comunità.

L’unica evidenza che è chiara è ben riassunta in un verso di Medy, artista Bolognese di origini marocchine, “So che tu non ci stai a stare in mezzo ai miei guai”. In quel “tu” ci sta tutto il mondo degli adulti, dei coetanei e delle istituzioni. Serve sviluppare incontro, serve rispondere alla domanda: “noi vogliamo stare in mezzo ai loro guai?”