Abbiamo appreso che nella notte del 14 giugno scorso è colato a picco a largo di Pylos, nel sud del Peloponneso, un peschereccio partito da Tobruk, in Libia e diretto con ogni probabilità verso l’Italia. Si tratta di una delle peggiori tragedie di migranti nel Mediterraneo con un bilancio che rischia di registrare fino a 600 morti, molti dei quali non saranno mai ritrovati. Delle 750 persone che si presume fossero a bordo solo 104 sono state tratte in salvo e 78 sono i corpi recuperati. 

Ancora una volta si è trattato di una tragedia evitabile, frutto del rimpallo di responsabilità, dell’indifferenza dei soggetti che avrebbero dovuto tempestivamente organizzare i soccorsi. 

Ciò emerge in modo evidente da un video diffuso dal sito defenceline.gr che sembrerebbe smentire la versione della Guardia costiera greca, secondo cui la nave poi naufragata con i migranti a bordo stava proseguendo il suo viaggio e avrebbe anche rifiutato i soccorsi, in un contesto di condizioni meteo avverse. Le immagini testimoniano invece non un mare in tempesta, con le onde pronte a inghiottire il barcone, ma acqua piatta e il peschereccio sostanzialmente fermo. La nave si trovava in una situazione di “Distress”, cioè in difficoltà, condizione che avrebbe dovuto portare i soccorritori a intervenire. Il portavoce dalla Guardia costiera ellenica, Nikos Alexiou, aveva negato in più l’esistenza di immagini precedenti al naufragio avvenuto alle due di notte del 14 giugno scorso.

Inoltre l’inviato speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo, Vincent Cochetel, riferisce di “una inquietante manovra della Guardia costiera – tramite traino – per portare fuori il peschereccio dalle acque greche”. Ipotesi, anche questa, smentite da Atene.

Come dopo ogni “tragedia” del mare, anche se il termine “tragedia” inizia suonare beffardo e ingiusto viste le circostanze che portano a questi fatti, ciò che rimane è il silenzio dei numeri che affogano l’identità e la storie di chi fugge rischiando così tanto. 

Ciò che rimane è il silenzio di accuse vorticose rivolte ai trafficanti di esseri umani che nascondono una verità più ampia cioè quella di politiche europee e nazionali che ai confini hanno costruito barriere impenetrabili per tenere distante chi ha bisogno e continuare a conservare i privilegi acquisiti grazie anche allo sfruttamento di chi oggi bussa alle nostre porte. 

Ciò che rimane è il silenzio dell’opinione pubblica che oltre alla passione avvincente per la macabra curiosità di sapere i dettagli di fatti orribili non ha più la forza di indignarsi, le nostre coscienze sono ormai troppo appesantite da innumerevoli fatti simili a quello che oggi mi trovo a commentare per trovare la forza di rialzarsi e gridare allo scandalo. In pochi lo fanno, governa l’indifferenza.

Ciò che rimane è il silenzio che avvolge la vita di chi ha superato esperienze di viaggio al confine con la morte, vite intrappolate nella frustrazione burocratica dell’attesa di documenti, vite intrappolate in hot spot sovraffollati, vite intrappolate ai bordi delle strade, vite intrappolate nello sfruttamento lavorativo.   

Di tutti questi silenzi quotidianamente rischiamo di essere complici diventando a volte colpevoli.

Tutti questi silenzi alloggiano nel minuto di silenzio che abbiamo tenuto in aula, non solo per ricordare chi è scomparso in Grecia, ma soprattutto per ricordare la frequente scomparsa delle istituzioni nella gestione dei fenomeni migratori, con la promessa che a partire dalla nostra città faremo di tutto perché il silenzio non vinca e che la dignità delle persone sia sempre rispettata.