La Great Resignation è un fenomeno nato nell’estate 2021 negli Stati Uniti d’America e che consiste nelle dimissioni volontarie di persone che lasciano il proprio lavoro alla ricerca di maggiore benessere all’interno del mercato del lavoro ma anche di una migliore qualità tra vita privata-lavoro. 

Si tratta di un fenomeno recente e complesso i cui comportamenti manifestati comportano conseguenze rilevanti per la persona e la società in generale.

Sono oltre 1,6 milioni, infatti, le dimissioni registrate nei primi nove mesi del 2022, il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021 quando ne erano state registrate più di 1,3 milioni. 

Guardando il solo terzo trimestre dell’anno scorso, le dimissioni sono state 562mila, in crescita del 6,6% (pari a +35mila) sul terzo trimestre 2021. 

La fotografia arriva dagli ultimi dati trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro, e il numero indica i rapporti di lavoro cessati per dimissioni, e non il numero dei lavoratori coinvolti.

In Italia il trend non è paragonabile ad altri paesi ma di certo, dopo la pandemia, il fenomeno delle dimissioni dal lavoro si fa sempre più rilevante. 

Continua così ad aumentare il numero di coloro che decidono di lasciare il proprio posto di lavoro per scelta o per necessità, per esplorare ulteriori opportunità di lavoro che possano garantire carriera o per far meglio conciliare le esigenze della famiglia. 

I motivi possono essere vari, ma di fatto la tendenza osservata a partire da due anni a questa parte si conferma con numeri in salita.

Per i sindacati bisogna “rivedere i modelli organizzativi verso una maggiore qualità”. Mediamente si fatica di più a sviluppare forme di welfare integrativo nei luoghi dove non si pratica la contrattazione aziendale e non si costruiscono sistemi premianti trasparenti. Dove si eroga poca formazione, si genera minore conciliazione vita-lavoro, si intravedono minori prospettive di crescita economica e professionale”. 

L’esigenza delle persone è di vedersi riconosciuto il proprio lavoro come valore importante.

Queste tendenze in costante crescita sul senso e il tempo del lavoro sono collegate anche al fenomeno NEET.

L’Istat ha rilevato che i giovani non più inseriti in un percorso scolastico/formativo e non impegnati in un’attività lavorativa, i cosiddetti Neet (Neither in Employment nor in Education and Training), presentano caratteristiche e motivazioni di base eterogenee, ma hanno in comune una condizione che, se protratta a lungo, può comportare il rischio di concrete difficoltà di inclusione nel mondo del lavoro.

Nel 2021, in Italia, la quota di Neet sul totale dei 15-29enni è pari al 23,1%, in leggero calo rispetto alla crescita registrata nel 2020 per l’impatto della pandemia sull’occupazione, ma è 10 punti percentuali superiore a quella europea (13,1%).

L’Istat ha comunicato inoltre che nel 2021, il 51,6% dei Neet disoccupati è alla ricerca attiva di lavoro da almeno 12 mesi, una quota più alta di quella del 2020 (44,9%). I Neet disoccupati (cioè alla ricerca attiva di un lavoro) sono quelli più attenti alle dinamiche del mercato del lavoro e dunque più facilmente integrabili; tuttavia, se la ricerca di un’occupazione si prolunga nel tempo cresce il rischio di transito all’area dell’inattività.

I Neet disoccupati da 12 mesi o più sono 350mila e risiedono prevalentemente nelle regioni meridionali, dove rappresentano il 61% dei Neet disoccupati (46,3% nel Centro e 39,4% nel Nord). 

Dobbiamo lavorare perché il lavoro torni dignitoso e la formazione innovativa, sfidante e moderna. Questo comporta maggior finanziamento per i giovani e per il welfare.